Impresa sociale in campo culturale: iniziamo a ragionare

Un articolo di  Marco D'Isanto e Franco Broccardi 

La riforma del Terzo Settore oltre a mettere a sistema una serie finora frammentaria di norme talvolta contraddittorie ha indicato abbastanza chiaramente la volontà del legislatore di dividere questo comparto in due precisi e divisi mondi. Da una parte il volontariato puro, l’associazionismo filantropico in cui è il dono, fosse anche solo del tempo, la base fondante. Dall’altro lato si è fortemente spinto affinché gli enti che per la propria sostenibilità e forse anche seguendo una propria predisposizione naturale erano, sono e saranno impresa vengano allo scoperto e si strutturino adeguatamente. Non è forse un caso che i decreti aventi a oggetto gli Enti del Terzo Settore (ETS)  e quello sull’Impresa Sociale (IS) di cui la riforma si struttura siano separati quando, teoricamente, avrebbero potuto anche essere scritti assieme. L’IS, quindi, è la meta cui dovranno tendere tutti coloro che esercitano un’attività economica non lucrativa e a questa tipologia organizzativa si dovrà guardare con grande interesse e attenzione. Indipendentemente dalla forma giuridica originaria è la configurazione di IS che consente ai diversi attori non profit di esercitare in forma stabile una attività economica. Non mancano, però, alcuni aspetti controversi sui quali vale la pena riflettere nell’auspicio che nei prossimi mesi possano essere superati.
Per chi opera in ambito culturale le attività di interesse generale che il decreto individua come esercitabili dalle imprese sociali da una parte allargano positivamente i confini di operatività di tali soggetti ma, dall’altra, necessitano di essere puntualmente meglio specificate. In particolare ci interessa ragionare su quelle che il decreto definisce attività culturali di interesse sociale con finalità educativa, l’organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, l’organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso e, infine, attività di carattere residenziale temporaneo diretta a soddisfare bisogni sociali, sanitari, culturali, formativi o lavorativi. L’impressione che si ricava dalla lettura della norma è che questo si presti ad abusi della qualificazione sociale di tali attività che, come troppo spesso accade, lascia ampi margini interpretativi quelli che, come sempre, possono alla fine inficiare la bontà dei presupposti di una norma. È necessario chiarire, per fare un esempio, cosa si voglia intendere per attività turistiche di interesse culturale al fine di evitare distorsioni e per consentire, quindi, agli operatori di inquadrare correttamente il campo delle proprie attività e che queste non vengano strumentalmente piegate . Perché dalla lettura della norma questo non è chiaro. Un b&b a poca distanza da un museo famoso rientra in questo oggetto? Lo stesso vale per qualsiasi gita turistica o visita guidata in un sito di interesse culturale? E i centurioni al di fuori del Colosseo? Una camera con vista venduta su airbnb è conforme a una attività di carattere residenziale temporaneo diretta a soddisfare culturali? Si tratta di provocazioni (ma non troppo) che però danno l’idea di come il perimetro non sia ben definito e di come le interpretazioni possono essere molto soggettive.
Un ulteriore aspetto controverso riguarda il trattamento tributario. La riforma non ha introdotto, correttamente, un modello tipizzato di IS. Questa è, nella realtà dei fatti, una qualifica che può essere acquisita da parte di tutti gli enti privati inclusi quelli costituiti nelle forme societarie e ne consegue che possono essere IS soggetti con natura, complessità, e norme di riferimento completamente diverse potendosi fregiare di tale titolo, nei limiti di quanto previsto dal decreto, un ventaglio di figure che vanno dalla SpA alla associazione. Tutto questo è ben chiaro e comprensibile. Quello che, al contrario, non è raccontato è se esista un trattamento fiscale unitario per le varie forme di IS o se ogni forma giuridica conserva l’originaria configurazione tributaria.
Il precedente decreto, che disciplinava l’IS, conteneva una previsione secondo la quale alle “organizzazioni non lucrative di utilità sociale e gli enti non commerciali che acquisiscono anche la qualifica di impresa sociale, continuano ad applicare le disposizioni tributarie previste dal medesimo decreto legislativo n. 460 del 1997, subordinatamente al rispetto dei requisiti soggettivi e delle altre condizioni ivi previsti”. Questa puntuale previsione aveva fatto prevalere, nell’opinione degli interpreti, l’ipotesi della neutralità fiscale dell’acquisizione della qualifica di IS da parte di un ente associativo qualificato come ente non commerciale.
Questo comportava che un’associazione culturale in possesso della qualifica di Impresa sociale continuava a non tassare sia ai fini iva che Ires i proventi dell’attività istituzionale. La natura di ente non commerciale e tutte le agevolazioni conseguenti  veniva dunque conservata.
Nel testo della riforma, però, un’analoga previsione non esiste. Si allude ripetutamente all’esercizio continuativo e stabile di una attività d’impresa che renderebbe chiaro lo status di enti commerciali a tutti i soggetti in possesso della qualifica di impresa sociale. Per determinare, in relazione all’attività principale da essi svolta, la natura del reddito degli enti non commerciali sarà necessario, quindi, indagare l’oggetto esclusivo o principale delle proprie attività. Secondo il nuovo decreto risulterebbe evidente che gli enti qualificati come IS dovranno esercitare in via stabile e principale un’attività d'impresa e dunque il reddito relativo alle attività realizzate sarà attratto nell’ambito del reddito d’impresa. E questo avrebbe conseguenza, sia ai fini iva che ai fini Ires l’acquisizione per l’associazione dello status di ente commerciale. I benefici fiscali connessi alla non imponibilità dei proventi afferenti l’attività istituzionale ai verrebbe persa. Chiaramente in quanto impresa sociale l’associazione applicherebbe la normativa di favore prevista per questi soggetti tra cui la detassazione degli utili realizzati.
Diverso è invece il criterio di determinazione del reddito. Nella relazione illustrativa al decreto, infatti, si legge che “quella di impresa sociale è una qualifica normativa che può essere assunta da diverse tipologie di enti. Di conseguenza, i relativi redditi sono determinati secondo le norme tributarie ordinariamente applicabili alle diverse tipologie di enti che possono assumere la qualifica di impresa sociale”. Non sfugge qui il richiamo alla determinazione dei redditi che chiaramente per gli enti non commerciali segue regole diverse dagli altri. Le società infatti sono ontologicamente enti commerciali: il reddito che producono, indipendentemente dalla fonte, viene attratto interamente nella sfera del reddito d’impresa. Gli enti non commerciali possono, invece, conseguire redditi appartenenti a categorie diverse (fondiari, di capitale, d’impresa e redditi diversi) e il reddito complessivo è dato dalla somma dei redditi delle diverse categorie. Per questi enti diversi dalle società, i redditi e le perdite che concorrono a formare il reddito complessivo sarebbero determinati distintamente per ciascuna categoria in base al risultato complessivo di tutti i cespiti che vi rientrano.
La formulazione contenuta nella relazione illustrativa però apre la strada a dei dubbi interpretativi: alcuni hanno infatti intravisto la possibilità che non solo gli enti non commerciali conservino le proprie regole di determinazione del reddito ma che conservino anche lo status tributario di enti non commerciali. L’assenza di una previsione normativa esplicita in questo senso, al contrario, farebbe propendere verso l’ipotesi di qualificare quelli relativi alle attività principali realizzate come redditi d’impresa e quindi, accogliendo la formulazione della relazione illustrativa, le associazioni manterrebbero esclusivamente la facoltà di determinare i redditi sulla base della normativa originaria degli enti non commerciali.
Per concludere: il percorso logico interpretativo proposto conduce dunque al risultato che il mutamento di status dal punto di vista tributario attrae le associazioni tra gli enti commerciali. Questo equiparerebbe, dal punto di vista fiscale, per gli enti non commerciali, l’acquisizione della qualifica di IS alla trasformazione da soggetto non commerciale in società commerciali. E anche quest’aspetto merita di essere chiarito.
Quindi: la riforma del terzo settore interviene in un comparto che aveva decisamente bisogno di una regolamentazione organica e di un indirizzo professionale in termini di sostenibilità e di governance anche in considerazione dei numeri in grado di sviluppare e delle particolari forme di finanziamento che lo stesso necessita. Questo non significa che tutto sia perfetto. Esistono zone grigie su cui sarà necessario intervenire, quelle accennate sono solo alcune. Il tempo delle analisi è appena cominciato.
 
 
Con questo articolo inauguriamo una sezione del blog, cultural economy, in cui ci occuperemo stabilmente della fiscalità delle Imprese culturali.